Un secondo luogo di elaborazione dell’assenza spicca nella narrativa perecchiana, e coinvolge la nozione stessa di contrainte da lui elaborata: in La disparition il quinto dei ventisei capitoli è soppresso, e ciò non sorprende poiché rimanda alla scomparsa della quinta lettera sulle ventisei dell’alfabeto. In La Vie mode d’emploi i capitoli dovrebbero invece essere cento, poiché il quadrato generativo ha il lato di dieci elementi; di fatto, invece, i capitoli sono novantanove, in effetto della soppressione del numero sessantasei, come si può facilmente verificare ripercorrendo la poligrafia del cavallo che regola la successione dei capitoli; eppure la scomparsa qui non ubbidisce all’input irrevocabile della contrainte, ma al contrario introduce volontariamente un’imperfezione reticolare nello schema:

… è necessario che questo capitolo sparisca per spezzare la simmetria, per introdurre un errore nel sistema, perché quando si stabilisce un sistema di contrainte bisogna che ci siano anche le contro-contrainte. Bisogna – ed è importante – distruggere il sistema dei vincoli. Non deve essere rigido, bisogna che ci sia del gioco, come si dice, che strida un poco; non deve essere completamente coerente […]. Secondo Klee «il genio è l’errore nel sistema».[1]

La dichiarazione di questa necessità non ha però riscontri altrove, legandosi in realtà al fallimento del progetto di Bartlebooth, che muore prima di riuscire a ricomporre l’ultimo puzzle. Cos’è che in questo romanzo, e solo in questo, si frappone al completamento delle istruzioni fornite dalla regola? Il disegno solitario di Bartlebooth è incrinato dall’irruzione della realtà, sotto le sembianze di un potente critico d’arte che contrasta la distruzione degli acquerelli, che vuole acquisire alla sua collezione, rallentando in misura decisiva il lavoro del miliardario. Il disegno astratto della regola viene corrotto dal contatto con le dinamiche del reale, con le regole socio-economiche della produzione a cui è comunque subordinato, evidenziando alla fine la contrapposizione «tra la vita e le istruzioni per l’uso, tra la regola del gioco che ci fissiamo e il parossismo della vita reale che sommerge, che distrugge continuamente questo lavoro di riordinamento»[2]; il piano formale registra questa suggestione, traslazione giustificata poi da Perec con la dialettica del clinamen, che non ha solo Epicuro e Klee[3] dietro di sé, ma anche i procedimenti rousseliani.

La ragione dell’insolita (in Perec) imperfezione della regola trova forse fondamento nel carattere enciclopedico del romanzo, individuando un principio metodologico di irretimento del reale nelle maglie della finzione: se il reale è ciò che rompe la regola, una rappresentazione del reale deve per definizione riportare un buco nella rete che lo stringe, e Perec si affretta a programmare la presenza di tale imperfezione con lo scopo di appropriarsene. In altre parole, è virtù della perfezione il comprendere tutto, ma se nel compreso deve entrare il reale, allora vi deve entrare anche l’imperfezione: il capitolo mancante di La vita istruzioni per l’uso è la via di accesso al reale che perfeziona la finzione rappresentativa. Perec argomenta altrove questo stratagemma, parlando degli «effetti di reale (o di vissuto)» studiati dai trompe-l’oeil, «nei quali tutto ciò che si metterebbe spontaneamente, “naturalmente” dalla parte della vita, della natura e non da quella dell’arte, dell’artificio, vale a dire, alla rinfusa, il disordine, l’usura, la patina, la polvere, l’un-po’-sporco, l’accidentale, il difettuccio, l’irregolarità, eccetera, sarà con grande precisione sistemato, messo in scena, per segnalare al nostro occhio stupefatto e sbalordito che si è proprio nella realtà vivente e vibrante»[4].

Ma non bisogna dimenticare che questo tassello è vuoto: esso, spalancando la finzione sulla imperfezione della realtà, la restituisce come caos, come spazio del non dicibile, che infatti non trova discorso nell’opera.

Ancora una volta, Perec disponeva di un analogo motivo in Calvino: nella Taverna dei destini incrociati campeggia al centro dello schema un tassello vuoto, che, come ne La disparition, rimanda all’assenza che origina la narrazione, che Marcel Bénabou chiama significativamente lipofonia («ovvero la soppressione pura e semplice della voce umana e di tutto ciò di cui essa è abitualmente veicolo»[5]). Del resto anche al centro esatto dello schema de Le città invisibili è posta la città di Bauci, sospesa tra invisibilità ed assenza, così come ricompare spesso altrove il topos del centro vuoto:

La società moderna tende a una configurazione estremamente complicata che gravita su un centro vuoto ed è in questo centro vuoto che si addensano tutti i poteri e tutti i valori.[6]

In definitiva in Calvino questo motivo rimanda, più che all’indicibile da comprendere nel discorso, al tentativo reiterato di sviluppo «in superficie» dell’identità, all’avversione costante per il “viscerale” e il profondo: la pienezza del centro è un apparenza, e così si dissolve nel centro delle opere calviniane. Alla stessa conclusione giunge Palomar:

Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose […] ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile.[7]

Indice
Le tecniche della presenza
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[1] Conversazione con Eva Pawlikowska, op. cit., p. 99.

[2] Sono nato, op. cit., pp. 76-77.

[3] Sull’influenza di Klee in Perec cfr. Santino Mele, A penna e acquarello, Perec e Klee, «Riga», n° 4, pp. 159-70.

[4] Questo non è un muro… (Ceci n’est pas un mur, in Georges Perec e Cuchi White, L’Oeil ébloui, Paris, Chêne/Hachette, 1981), trad. it. di Luigi Grazioli, «Riga», n° 4, p. 52.

[5] Marcel Bénabou, op. cit., p. 22.

[6] Il potente intercambiabile (1974), S 2259.

[7] Palomar (1983), RR II 920.