La ricerca oulipiana è attiva in tutte le opere di Perec, come confessa lo stesso autore, ma sovrapposta all’azione di altre lenti d’ingrandimento, altrettanti strumenti per indagare campi diversi della realtà; se talvolta Perec si concede il vezzo di nascondere le dinamiche dei suoi procedimenti compositivi, le linee-guida della sua scrittura sono invece continuamente evidenziate, e ricombinate senza posa in un discorso che non è orientato verso il lettore, ma cerca affannosamente una particolare linearità “non-euclidea” che lo riporti all’autore stesso, per informarlo di ciò che sta facendo. Una prima classificazione delle lenti utilizzate da Perec per la messa a fuoco del reale è piuttosto agevole, e così riportata dallo stesso autore:

… i libri che ho scritto si rifanno a quattro campi diversi, a quattro modi di interrogare che, alla fine, pongono forse tutti la stessa domanda, ma secondo prospettive particolari che ogni volta corrispondono per me a un diverso tipo di lavoro letterario.

La prima di queste interrogazioni può essere considerata di tipo “sociologico”: come guardare il quotidiano, ed è all’origine di testi come Les Choses (Le cose), Espèces d’espaces, Tentative de description de quelques lieux parisien, e del lavoro realizzato con l’équipe di Cause commune su Jean Duvignaud e Paul Virilio; la seconda è di ordine autobiografico: W ou le souvenir d’enfance, La Boutique obscure, Je me souviens, Liex où j’ai dormi, ecc.; la terza, ludica, rinvia al mio gusto per i contrasti, le prodezze, le “gamme”, e a tutti i lavori per i quali le ricerche dell’OuLiPo mi hanno dato l’idea e i mezzi: palindromi, lipogrammi, pangrammi, anagrammi, isogrammi, acrostici, parole incrociate, ecc.; la quarta, infine, riguarda il romanzesco, il gusto per le storie e le peripezie, la voglia di scrivere libri che si divorano stando comodamente a letto: La Vie mode d’emploi (La vita istruzioni per l’uso) ne è l’esempio tipico.

La suddivisione è in qualche modo arbitraria e potrebbe essere molto più sfumata: quasi tutti i miei libri non sfuggono a una certa impronta autobiografica (per esempio, inserisco in un capitolo che sto scrivendo un’allusione a un avvenimento che mi è capitato durante la giornata); e quasi nessuno si realizza senza che io non abbia fatto ricorso a quel contrasto o a quella struttura oulipiani, non fosse che a titolo simbolico e senza che la suddetta struttura o il suddetto contrasto mi condizionino in qualche cosa.[1]

L’operazione combinatoria è così talvolta decentrata rispetto al centro funzionale del testo, assunta per il suo valore esteriore di segno inconfondibile dell’immaginario perecchiano, una regolamentazione «che faccio un po’ come un pianista che fa le scale»[2]; ma di norma essa si trova a governare la scrittura, in posizione sovraordinata rispetto alle altre dinamiche:

L’invenzione per quel che mi riguarda parte sempre da un’invenzione formale. All’inizio c’è un bisogno tracciato di scrivere e questo bisogno trova la sua origine in un’esperienza personale o in qualcosa che mi succede e che viene poi trasformato per mezzo di un’invenzione formale.[3]

L’uso della combinatoria si pone in realtà su un piano esterno a quello degli altri tre principi, mirando ad organizzarne la compresenza all’interno del testo. O meglio, i moduli combinatori devono essere distinti dalla loro applicazione nel campo linguistico, ponendosi come modalità di organizzazione dei quattro orizzonti del suo lavoro: «il mondo che mi circonda, la mia storia, il linguaggio, la finzione»[4].

L’esperienza di Lieux mostra esemplarmente l’abilità perecchiana nell’intrecciare le sue linee letterarie: si tratta di un progetto di descrizione di dodici luoghi parigini, che avrebbe dovuto svolgersi in dodici anni, dal 1969 al 1980, ma che s’interruppe nel 1975[5]. Si era proposto di fare ogni mese due descrizioni: la prima direttamente sul posto, annotando minuziosamente tutto ciò che avveniva davanti ai suoi occhi; la seconda in base all’esclusiva ricostruzione della memoria di oggetti, eventi ed incontri legati a quel luogo. I dodici luoghi erano stati infatti scelti in base a un qualche legame con la sua personale esperienza[6]. Ma non basta: la successione dei luoghi è stabilita da un biquadrato ortogonale di ordine dodici, una struttura il cui sistema di permutazione gli consentiva di descrivere in un anno lo stesso luogo due volte, la prima come reale, la seconda come ricordo, e mai nello stesso mese. La linea sociologico-descrittiva si salda qui con quella autobiografica, fusione organizzata da uno schema combinatorio sottostante.

Che i quattro poli procedurali circoscritti da Perec siano sottoposti ad un’incessante combinazione in tutte le sue opere è fenomeno già riconosciuto, e ampiamente documentabile: Les choses, il suo primo romanzo, non fa che proiettare in una finzione leggibile a livello «sociologico» l’esperienza vissuta in prima persona, dilatandone i fondamenti fino a congiungerli col dramma intersoggettivo della resa al consumismo:

In Le cose è la mia esperienza che descrivo e l’esperienza di un gruppo di amici, gente che conoscevo in quel periodo, momento in cui si passava dalla condizione di studenti alla vita civile, alla vita quotidiana, in cui bisognava guadagnarsi da vivere […]. Era dunque la mia esperienza (nutrita in gran parte dall’insegnamento di Roland Barthes e, a livello di scrittura, da Flaubert, dall’Educazione sentimentale), a cui davo, semplicemente, un carattere generale.[7]

Anche nel più direttamente autobiografico dei suoi libri, W ou le souvenir d’enfance, Philippe Lejeune ha dimostrato l’esistenza di liste preordinate di elementi e schemi di permutazione [8]. D’altronde qui la rievocazione dei ricordi si articola sul filo della descrizione minuziosa e dell’enumerazione di oggetti quotidiani, quali ad esempio le fotografie che fissano i volti della sua infanzia.

Indice
La vita: istruzioni per l’uso
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[1] Note su ciò che cerco (1978), in Pensare/Classificare, op. cit., pp. 9-10.

[2] Conversazione con Jean-Marie Le Sidaner, op. cit., p. 93.

[3] Conversazione con Eva Pawlikowska (1981), trad. it. di Elio Grazioli, «Riga», n° 4, p. 99.

[4] ibid.

[5] Il programma di lavoro venne da lui reso noto in Espèces d’espaces, Paris, Galilée, 1974 (Specie di spazi, trad. it. di Roberta Delbono, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, pp. 67-68).

[6] Cfr. la Lettera a Maurice Nadeau, in Je suis né (Sono nato, trad. it. di Roberta Debono, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 51).

[7] Conversazione con Eva Pawlikowska, op. cit., pp. 98-99.

[8] Cfr. Philippe Lejeune, La genèse de “W ou le souvenir d’enfance”, «Cahiers Georges Perec», n° 2, 1988, pp. 119-155.