I due ultimi romanzi di Queneau approfondiscono il motivo principe della ricerca di una pacifica convivenza antigerarchica nel testo di livelli diversi: ne I fiori blu i due livelli paralleli sono ritagliati nella linea della Storia; in Icaro involato sono invece fusi nello stesso piano i due livelli di realtà narrativa dell’autore e del suo personaggio. Il fondo filosofico che nei Fiori blu consente di svolgere parallelamente le storie del Duca d’Auge e di Cidrolin è rintracciabile nell’hegelismo di Queneau, mediato dalla lettura di Kojève, che vede in Hegel una uscita dalla Storia attraverso la conquista della saggezza. Sul piano tematico questo motivo supporta già a sufficienza l’interpretazione calviniana:

Le parodie caricaturali di fatti storici ed epoche possono essere facili e scontate, ma quel che ci mette Queneau è una specie di sarcasmo contro il tempo e i suoi valori, contro l’«homo historicus» rappresentato dal frenetico Duca d’Auge (non incline però all’interventismo: si rifiuta di partecipare alla Crociata, e sta ben attento d’evitare di trovarsi in mezzo alla Rivoluzione francese), contrapposto all’uomo statico per eccellenza, che sonnecchia su una chiatta immobile sulla Senna e la cui unica attività è il sogno.[1]

Ma nei romanzi di Queneau, come abbiamo visto, il piano tematico è in grado di generare e riverberarsi in un piano formale isomorfo: così ne I fiori blu i due personaggi hanno la possibilità di uscire dalla storia in un senso del tutto differente: contrariamente alle leggi di verosimiglianza assunte apparentemente dalla diegesi, il Duca d’Auge e Cidrolin si sognano a vicenda, evocando e conducendo alla circolarità equiprobabile la gerarchia dei livelli narrativi, che sbocca ovviamente nella loro pacifica convivenza quando il Duca giunge a far visita alla chiatta di Cidrolin.

Questa rivolta contro la disposizione gerarchica del materiale narrativo si palesa con ancor maggiore evidenza in Le vol d’Icare (1970): il personaggio creato dal romanziere Hubert Lubert esce dal manoscritto e vaga per il livello di realtà del suo fautore, scatenando un irresistibile inseguimento che coinvolge tutti i possibili paradossi che la fantasia queneauiana può ricavare da quest’infrazione. Si era dato più volte nella tradizione il caso dell’incursione dell’autore nel livello sottostante della diegesi; il caso inverso posto in atto da Queneau è più complesso, perché crea un cortocircuito logico che fa risalire al personaggio la “corrente” narrativa fino ad un livello dove non è ammessa la sua presenza; in termini tecnici, si potrebbe parlare del movimento d’Icaro come di una infrazione transdiegetica. Non si tratta di un espediente formale, irrealizzabile per definizione, ma di una figurazione tematica della sua possibilità, che lo respinge ad un livello testuale più interno. L’assunzione del personaggio mitologico di Icaro è del tutto conseguente all’idea generatrice: il contenuto mitico dell’esigenza incontenibile dell’elevazione verso uno status superiore è perfettamente traducibile nella figurazione di rapporti narrativi messa in scena da Queneau.

Come i Centomila miliardi di poesie simulavano una funzione co-autoriale del lettore, qui in realtà troviamo una simulazione di correaltà tra l’autore e il personaggio, che infatti fa chiudere il libro con la “richiusura dentro il libro” di un Icaro cadente, prevista fin dall’inizio: è una libertà prestabilita che Queneau sembra sempre concedere ai soggetti del gioco letterario, semplicemente per riaffermare una più estesa e onnicomprensiva facoltà demiurgica dell’autore. Ed è questa la più importante tra le molte lezioni di scrittura che influiranno su Calvino. Se infatti in Se una notte d’inverno un viaggiatore ripercorrerà la simulazione queneauiana di una parziale alienazione della facoltà autoriale a favore del lettore, nel «racconto deduttivo» Il conte di Montecristo (che chiude Ti con Zero) rielaborerà anche lo stratagemma della fuga d’Icaro, trasponendolo in un’altra operazione di riscrittura. Ne sintetizziamo qui le dinamiche: Calvino mette in campo una duplice struttura concentrica, su cui si modellano le figure sovrapposte dell’organizzazione topologica (campo dell’azione diegetica) e di quella narratologica (campo dell’azione metadiegetica). Il tema della ricerca della fuga si muove su entrambe le strutture, con linee orientate verso l’esterno, ma il récit evocato dal romanzo di Dumas risulta su­bordinato all’interazione con l’istanza metanarrativa. La libertà ricercata dal pri­gioniero Dantès è quindi un virtuosistico raddop­piamento, sul piano della fabula, della ricerca di libertà dai canoni clas­sici della narra­zio­ne, attuata attraverso la comunicazione fra i livelli di realtà[2] e la rottu­ra della loro organizzazione gerarchica.

Il narratore ingabbiato Dantès instaura due tipi di rapporti di­versi con tali livelli narrativi esterni: quando immagina Faria come perso­naggio, o permuta le varianti della fuga alla ricerca della fortezza per­fetta, mimando la scrittura combinatoria istituisce una mise en abyme con i livelli dell’autore originale e dell’autore implicito[3]. Quando inve­ce vìola finalmente il livello di realtà di Du­mas, ripercorre lo stratagemma transdie­getico inventato da Queneau. I rapporti di pote­re fra autore e personaggio vengono così stravolti: l’onniscienza del primo viene ridistribuita equamente fra i due, ed il controllo della narrazione è assunto interamente dall’autore implicito (laddove prima era mediato dall’autore originale). La scelta del romanzo di Dumas come campo di azione di questo movimento antigerarchico della scrittura assume ovviamente lo stesso senso di quella queneauiana di Icaro: la prigionìa di Dantès e Faria, la loro instancabile ricerca di fuga assume un valore antonomastico tale da poter essere tradotto in termini formali e pilotare il gioco infernale dei paradossi narrativi.

Indice
Georges Perec – Oulipismi e rousselismi
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[1] I. Calvino, Nota del traduttore, in I fiori blu, op. cit., p. 272.

[2] Cfr. I livelli della realtà in letteratura (1978, in Una pietra sopra, S 381-98), in cui analiz­za la frase «Io scrivo che Omero racconta che Ulisse dice: io ho ascoltato il canto delle si­rene», con cui esemplifica la compresenza di livelli concentrici.

[3] «I diagrammi che io e Faria tracciamo sulle pareti della prigione assomigliano a quelli che Dumas verga sulle sue cartelle per fissare l’ordine delle varianti prescelte» (I. Calvino, Il conte di Mon­tecristo (1967), in Ti con Zero, RR II, p. 354).